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Porsche 89P: la conquista tedesca agli Stati Uniti

Come dimostra la storia dello stemma Porsche, la casa di Stoccarda ha sempre guardato al mercato negli Stati Uniti d’America con grande interesse. Non deve stupire, pertanto, la decisione di prendere parte alle competizioni su suolo statunitense, benché questo fosse così lontano da Zuffenhausen. Quale competizione migliore della CART, acronimo di Championship Auto Racing Teams, che, ispirandosi alla Formula 1 di Bernie Ecclestone, portava automobili a ruote scoperte a competere sui circuiti degli Stati Uniti, ma anche in Canada, Messico, Australia, Europa, Sud America e Giappone? A tal proposito, quindi, la casa fondata da Ferdinand Porsche annunciò il propio impegno nella CART con una vettura appositamente realizzata per competere nella manifestazione: la Porsche 89P. Ed è proprio di questa vettura che, in questo approfondimento, andremo a parlare.

L’automobile a ruote scoperte secondo Zuffenhausen, la Porsche 89P

Gli anni, se non si fosse ancora capito, sono quelli dei compressori volumetrici, capaci di trasformare le automobili in bolidi dalle potenze stratosferiche, dell’effetto suolo, in grado di incollare le vetture anche in curva a velocità mai viste prima, e del pericolo capace di attirare grandi folle a ogni manifestazione motoristica. Non c’è da stupirsi, quindi, che anche la casa di Stoccarda guardasse a queste competizioni con l’interesse di chi è chiamato a promuovere il proprio prodotto in mercati altamente competitivi. Già era stato così agli albori degli anni Ottanta, quando i tedeschi avevano unito le proprie forze al team Interscope Racing per prendere parte alle gare dell’IMSA, con un motore di derivazione della Porsche 935.

Tra il 1986 e il 1987, con l’intenzione di prendere parte alla CART, Porsche sviluppò la propria vettura partendo da un telaio e un motore proprietario. Una scelta, specialmente per quanto riguardava il telaio, molto controtendenza: la maggior parte dei team competitivi, infatti, acquistava i telai da altre aziende e, in alcuni casi, anche i propulsori. L’automobile realizzata dalla casa di Stoccarda, comunque, fu designata con il nome di Porsche 2708, ma il suo non fu un successo. Il telaio, secondo alcuni, non offrì prestazioni non adeguate. In generale, comunque, Porsche pagò l’inesperienza nella categoria. Per questo, nel 1988, la casa di Stoccarda decise di rivolgersi alla March Engineering, casa costruttrice britannica già all’epoca con significative esperienze in Formula 1. Questa pose sul piatto l’ultimo telaio sviluppato, il March 88C. Insieme con il motore V8, la Porsche 89P – questo fu il nome scelto per l’automobile – sembrò che si potesse competere a buon livello. In un primo momento, la vettura fu affidata al pilota italiano Mario Andretti, che, tuttavia, si tirò indietro. La Porsche 89P andò comunque a un italiano, il pilota Teo Fabi, che aveva già avuto esperienze significative in Formula 1 e nella CART.

Il telaio della Porsche 89P

Per il telaio della Porsche 89P, dopo le prime fallimentari esperienze della Porsche 2708, la casa di Stoccarda decise di affidarsi all’esperienza della March Engineering con cui già aveva avuto dei rapporti nel corso degli anni Settanta, quando la casa tedesca aveva finanziato la casa britannica con 30 mila sterline per far correre in Formula 1 il celebre pilota Porsche, Jo Siffert, e all’inizio degli anni Ottanta, quando la casa di Stoccarda aveva fornito alcuni propulsori per correre, tra l’altro vincendo, la 24 Ore di Daytona. Un rapporto solido, pertanto, che si cristallizzò ancor più con l’esperienza di Porsche nella CART, come dimostra anche l’insolito nome della Porsche.

Per Il telaio della Porsche 89P, in particolare, fu scelto un progetto che lo studio di ingegneria stava già portando avanti con la Alfa Romeo Indycar, il March 88C. Tale nome era, come d’abitudine per l’azienda, composto dall’anno di sviluppo del progetto, per l’appunto il 1988, e dalla formula in cui avrebbe dovuto gareggiare, la CART. Esso, comunque, influenzò la scelta del nome dell’automobile. Anche in Alfa Romeo fu così, tant’è che il progetto prese la designazione di 89CE. Il progetto della casa italiana, tuttavia, non ebbe successo e, ben presto, sarebbe tramontato. Alla casa di Stoccarda, invece, il telaio in materiali compositi rivestito in alluminio andò bene, sicuramente meglio di quello realizzato in casa. Secondo alcuni, in realtà, di telai ne esistevano due: uno appositamente studiato per i circuiti più tortuosi, e quindi ottimizzato per percorrere le curve lente, e un altro messo a punto per i tipici ovali statunitensi, dove le velocità in curva toccano punte più elevate. Di questa differenza, comunque sia, non vi è traccia nei dati diffusi dalla Porsche stessa. Quel che è certo, invece, è che l’automobile era lunga 4,66 metri ed era larga poco più di 1,99 metri, con un interasse di 2,84 metri. Dal piano di terra, invece, la 89P non arrivava al metro. Complessivamente, la vettura pesava appena 700 chilogrammi a vuoto, come vedremo, ben compensati dalla potenza del motore.

Il motore della Porsche 89P

Come sempre, quando si parla di motori Porsche, c’è molto da imparare per chiunque. Specialmente quando il progettista ha un nome importante come quello di Hans Mezger, il padre di tutti i più importanti motori della casa. Al compianto progettista, infatti, fu affidato il compito di sviluppare un propulsore capace di competere nella categoria CART, ma soprattutto alla 500 Miglia di Indianapolis , vero obiettivo della casa di Stoccarda. Il risultato fu un propulsore 8 cilindri a V di 90° alimentato a metanolo, come previsto dai regolamenti della competizione. Proprio questa caratteristica era di particolare interesse per Porsche, che voleva sviluppare tecnologie alternative alla benzina, da poter integrare anche nelle proprie vetture di serie.

Il propulsore, poi, era raffreddato a liquido. La CART, infatti, non consentiva l’impiego dell’intercooler e, pertanto, non fu possibile sviluppare un’automobile raffreddata ad aria, come da tradizione della casa di Stoccarda. La cilindrata complessiva del propulsore, comunque, era di 2.649 cm3, capaci di sviluppare una potenza massima di 725 CV a 12.000 giri/min e una coppia massima di circa 465 Nm a 8.500 giri/min. In realtà, in origine il motore pare fosse in grado di sviluppare oltre 800 CV e di prestazioni in grado di far impallidire i competitor. Tuttavia, le pressioni degli altri costruttori portarono a una riduzione della potenza ad appena 725 CV, mentre nella sua versione originaria il motore finì su altre vetture come la Porsche 959 e la Porsche 961.

Risultati possibili anche grazie al turbocompressore abbinato, che era in grado di sviluppare una pressione di sovralimentazione di circa 1,5 bar. Il sistema di sovralimentazione era inoltre controllabile tramite una valvola pop-off. Al motore, poi, era accoppiato un cambio a sei marce. Con questa configurazione, sempre secondo i dati ufficiali della casa, la Porsche 89P era in grado di raggiungere l’impressionante velocità di 360 km/h.

I risultati della Porsche 89P

Veniamo, adesso, ai risultati raggiunti dalla Porsche 89P in terra statunitense. Ci piacerebbe dire che quello americano, fu un sogno, come ci si aspetterebbe. In realtà, i risultati della casa non furono per nulla entusiasmanti e, a distanza di decenni da quei giorni, possiamo dire che la sortita fu un sostanziale fallimento. Dopo la prima fase, che come detto non offrì risultati degni di nota, fu la volta del telaio March: per questo, sull’annata 1988 furono riposte grandi aspettative. Purtroppo tradite quasi del tutto. L’inesperienza del team, ancora una volta, fu la causa principale dei fallimenti della casa di Stoccarda e gli unici, timidi, risultati arrivarono grazie al talento del pilota italiano, Teo Fabi. A Phoenix Fabi, anche sfruttando errori degli avversari, il pilota milanese riuscì a ottenere un settimo posto dopo essersi qualificato nono. A Nazareth, in Pennsylvania, la Porsche 89P riuscì a ottenere il quarto posto che rappresentò il miglior risultato della stagione.

Per il resto del 1988, l’automobile patì numerosissimi problemi: perdite di olio, di acqua, rotture del cambio e altri problemi ancora che, alla fine, valsero un misero decimo posto nel campionato costruttori. Questo fece notevolmente calare l’interesse del Consiglio di amministrazione di Porsche verso il campionato statunitense. Nonostante questo, però, Porsche decise di schierarsi anche nella stagione 1989, con alcuni miglioramenti al propulsore e alla trasmissione. Grazie a queste migliorie, nonostante il ritiro alla 500 Miglia di Indianapolis dopo solamente 23 giri, la 89P ottenne anche una vittoria a Mid-Ohio e un quarto posto a Phoenix. Anche grazie a questi risultati, Teo Fabi, che nel frattempo era stato riconfermato alla guida della vettura, ottenne un nono posto assoluto nella classifica piloti.

Nel 1990, forte dei risultati ottenuti l’anno precedente, Porsche decise addirittura di schierare una seconda vettura che fu affidata a John Andretti, parente del più celebre Mario. La vettura, basata comunque sul un telaio della March Engineering, fu designata come Porsche 90P ed era sostanzialmente differente dalle altre automobili in gara. Da esse, in particolare, si distingueva per una linea di cintura molto bassa a causa della quale fu soprannominata pancake. Tuttavia, a causa delle pressioni da parte delle altre squadre, l’automobile fu posta sotto investigazione e, alla fine, fu giudicata pericolosa per la posizione troppo bassa del pilota. In seguito, il telaio della Porsche fu ritenuto persino più sicuro di quello dei concorrenti, ma a causa di questo giudizio la casa di Stoccarda fu costretta a riprogettare il telaio. Questa opposizione da parte degli altri team, spaventati dallo strapotere che avrebbe potuto determinare il nuovo telaio, e risultati non all’altezza dei desiderata della casa, alla fine, spinsero Porsche a concludere l’esperienza in CART con un bilancio che, purtroppo, non fu positivo.

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